Nazzarena Poli Maramotti: “Una fòla” al z2o gallery di Roma

Il mito del cacciatore 2022 300x300 RMQjcW
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ROMA – z2o Sara Zanin è lieta di annunciare “Una fòla”, seconda personale in galleria di Nazzarena Poli Maramotti, accompagnata da un testo di Cecilia Canziani.

fòla1 s. f. (lat. fabŭla: v. favola1). – Favola, fiaba, invenzione o immaginazione fantastica: Sogno d’infermi e fola di romanzi (Petrarca); Quante immagini un tempo, e quante fole Creommi nel pensier l’aspetto vostro (Leopardi); colui che di portenti E di sogni e di fole empié le carte (Giusti, con allusione all’Ariosto). Più com. nell’uso, spec. al plur., frottola, ciancia, notizia falsa: inventare fole; è tutta una fola. (Treccani)

Una fòla è il secondo capitolo di una trilogia del ritorno iniziata nel 2021 con il ciclo di lavori confluiti nella mostra Pratonera e dedicati ai luoghi e del paese della pianura padana emiliana dove l’artista ha scelto di stabilirsi nuovamente dopo gli anni di studio e lavoro all’estero, e che ora affronta i temi più intimi di una saga familiare.

Se Pratonera costruiva una sorta di mitologia della pianura – del suo paesaggio, dei personaggi che la popolano, dei suoi riti – Una fòla, a partire dal titolo è un invito a leggere le opere nello spazio come elementi di un racconto i cui contorni sono incerti e il contenuto così fantastico da far dubitare della sua verità, come del resto accade per tutte le storie che si tramandano in famiglia.

Non è importante conoscere esattamente i contorni di questa storia, basti dire che al centro c’è la tomba di una scimmia che si rivela vuota, una figura maschile e una costellazione familiare femminile, e che le opere sono un modo per restituire evidenza al racconto e celebrare, più che elaborare, un trauma.

Così in mostra si alternano una serie di dipinti a olio su tela e su tavola: ritratti che nei colori e ancora di più nelle pose sembrano emergere da un passato non così lontano ma già sfuggente, paesaggi costruiti reinventando quei paesaggi con nature morte di cacciagione tipiche della pittura fiamminga seicentesca, e ceramiche che a volta sono declinate come ornamento e altre come oggetti autonomi e che alludono alla scultura funeraria. Sono elementi organici che si innestano sui dipinti o cornici zoomorfe che disegnano la parete per significare un’assenza, o ancora offerte che poggiano su basamenti e urne poste su mensole.

Nei quadri e nelle ceramiche torna lo stesso tipo di segno: un tratteggio grafico che a volte si sovrappone alla superficie a volte la incorpora come elemento costruttivo e rimanda in maniera più o meno evidente a una presenza animale. Le cornici sono infatti costituite da intrecci di code e i basamenti in legno di recupero che sostengono alcuni degli elementi in ceramica hanno zampe di leone.

La metamorfosi che è alla base di tante favole, si traduce in questa mostra nella migrazione di segni, posture e atmosfere da un’opera all’altra e da un medium all’altro ed è forse proprio attraverso questa ibridazione continua che la favola cupa si stempera a volte nel grottesco, facendo inaspettatamente spazio al riso.

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